la sociologia è quella disciplina che studia i fenomeni della società umana, dice wikipedia. Sarà, ma di tutte le cose che mi hanno raccontato nella mia testa in questo momento ho solo un concetto: la consapevolezza della malattia. Il sociologo racconta che quando a qualcuno viene diagnosticata una malattia, la difficoltà più grande è accettare la malattia. Per cui la persona attraversa una serie di fasi che vanno dal rifiuto, fino all'accettazione totale. E dice anche che, il modo per accettarlo più facilmente è raccontare il dolore. Cioè, raccontando alle persone il dolore che ti affligge, cominci ad avvertire tu stesso meno dolore perché lo condividi. Ho pensato, e creduto quindi che cominciando a raccontare il mio "dolore" forse mi sarei sentita meglio. E così ho fatto.
Sia chiaro, la mia situazione non può nemmeno minimamente essere paragonata ad una malattia. Conosco le malattie, vivo passivamente quelle degli altri ogni giorno, e non mi sogno nemmeno di mettermi sullo stesso piano. Ma credo che il modo in cui si vive il loro dolore e il mio sia simile, e forse, il modo di reagire ed elaborarlo deve essere simile.
Così finalmente, alla domanda " ma voi, figli?" non ho risposto come sempre "quando verranno...." ma con "non ne possiamo avere". Cavolo, fino a che non l'ho detta a voce alta a qualcuno che non fosse mio marito, non ho capito quanto forte è questa frase e che carico emozionale si porta dietro. "Non possiamo avere figli", ecco, l'ho detto. non vi dico la faccia dell'altra persona, che però ha saputo reagire in modo signorile ed elegante.
L'ho detto. E l'ho detto senza piangere. Anche se credo che il mio stomaco abbia sussultato. Poi l'ho raccontato a casa a Cristian, e gli occhi mi si sono riempiti di lacrime. Ma NON ho pianto. Sono forte io, lo sto diventando, ogni giorno di più. Ci sto lavorando, e starò sempre meglio. Intanto, un grande passo avanti l'ho fatto. E sono più serena.
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